Sessantaquattro anni.
Sono arrivati così, senza che me ne accorgessi. Un privilegio esserci? Forse… ma in che
modo dovrò attraversare questo tempo della vita? E per andare dove? Forse verso giusta
luce che mostra via?
Le domande esistenziali che da sempre mi hanno accompagnato cominciano a diventare
sempre più pressanti, ad avere un altro peso.
Lo scrittore polacco Joseph Conrad (Berdyčiv, 1857 – Bishopsbour-ne, 1924) era solito
definire “linea d’ombra” il momento in cui una certa fase esistenziale sta per terminare
mentre se ne profila un’altra, da vivere senza traumi, con consapevolezza e senza
recriminazioni.
Quale sia questo momento non ci è dato di sapere, nessuno lo può dire perché è
profondamente soggettivo e, di conseguenza, senza tempo, limiti, termini di paragone. È
se è pur vero che ognuno non è arbitro del proprio destino, lo è certamente nei mezzi,
nei modi, nelle decisioni, nella volontà di vivere l’inizio di un tempo nuovo, con
l’orgoglio d’aver vissuto e la voglia di continuare il viaggio, di scrivere gli ultimi
capitoli che, come in un libro, sono spesso anche più interessanti.
Niente di impossibile dunque negli anni del possibile in cui nulla è come sembra nella
grammatica di questo tempo.
D’altronde Seneca, nel suo De brevitate vitae, l’opera per eccellenza in
cui culmina la concezione della fugacità del tempo e la precarietà delle cose umane,
afferma che la vita non è breve, ma siamo noi a renderla tale.
Il tempo è il bene più prezioso e non va sottratto da attività di poco conto; avere
troppe cose da fare non è positivo. Bisogna far tesoro del passato e godere il presente.
Se ci dedichiamo al conseguimento della saggezza, la vita diventa abbastanza lunga e ci
permette di realizzare grandi cose e dare il giusto valore al tempo. Un’analisi che
risulta oggi più che mai attuale, in questo tempo tanto frenetico quanto dissennato.
La terza età, della saggezza dicono, spesso difficile da accettare, sicuramente
complicata. Detentrice di un’identità personale e storica ineguagliabile, restituisce un
senso all’esistenza in una società, quella del dove e del quando, quella dell’essere e
dell’apparire, che troppo spesso dimentica il vissuto.
Invecchiare è un dono.
Mi sorprende la persona che vive riflessa nel mio specchio, ma non mi preoccupo. Non
cambierei tutto quello che ho per qualche capello bianco in meno. Non mi rimprovero
nulla. Nessun rimorso di ciò che non è stato, nessun affanno per ciò che sarà nel tempo
che rimane, semplicemente amerò la vita come ho sempre fatto.
Già… avrò pure il diritto di essere un po’ disordinato, di curare il mio giardino, di
leggere un libro fino alle cinque del mattino, di conservare il sorriso della
giovinezza, di camminare sulla spiaggia a piedi nudi ricordando i momenti del passato,
quelli belli e quelli di sofferenza, quelli che hanno dato forza per andare avanti ad un
cuore dal “battito imperfetto”, mai sterile di sentimenti, mai avaro di passioni.
È tutto scritto, nelle mie poesie, dall’evanescenza delle emozioni, delle
passioni, senza le quali la vita non avrebbe alcun senso, alle geometrie/ dei
sentimenti attraverso i quali ognuno di noi si costruisce un’esclusiva identità,
qualcosa di magico, di misterioso, di attraente… un mondo di emozioni, relazioni
e sensazioni che si articolano profondamente in tutti gli aspetti della vita
quotidiana; dal vissuto all’ora sesta con promessa d’amore eterno al
tempo dell’assenza, dei tragitti di incomunicabili silenzi nei quali
l’amore e la passione appaiono ancora esistenziali.
Un progetto poetico, e difficilmente lo si potrebbe definire diversamente,
realizzato meticolosamente dal 2012. Allora, come oggi, mi affascinava la scelta
di titoli particolari e ancor più la rinuncia programmatica che abolisce
qualsiasi forma di solipsismo poetico, per certi versi strutturale in poesia e
non necessariamente tossico, che piega qualsiasi ostentazione allo scopo
primario: quello di raccontare, di analizzare, di definire attraverso la parola
il mistero dell’esserci e il significato di quell’esserci.
Per comprendere il senso di questa nuova raccolta poetica, basterebbe pensare a
quelle “vene aperte d’inchiostro” cui nostro malgrado siamo condannati, un
destino che in qualche modo tentiamo di sradicare attraverso la parola. Quelle
vene che legano, in coesione quasi viscerale, il poeta e la sua parola che va
ben oltre l’adozione di uno strumento come mezzo per interpretare realtà e
sentimenti. Nessun intento, nessuna sciatta autocommiserazione, solo il
risuonare di una grande consapevolezza di aver vissuto il proprio tempo.
Anche qui, come altrove nei miei libri, i soggetti coinvolti sono l’“io”, il
“me” e il “noi”, che non sfuggono a una catalogazione: un io ostinato,
un po’ pazzo e un po’ smodato, saggio a modo suo; un me inseguito,
franto e ritrovato; un noi come appartenenza a una condizione, a
un’umanità che condivide un medesimo destino e che incarna il desiderio di
comunione, di aspirazione all’unità.
Anche l’amore si offre come antidoto a quella scissione e frantumazione del me e
si svela in tutte le sue debolezze e fragilità, un amore che fa rima con
passione e che con passione innesca salvezza e perdizione, anche alla terza età;
perché l’età non è solo un fatto anagrafico, ma è quella che pensi che sia.
Si è vecchi quando si pensa di esserlo (cit. Muhammad Ali). Si diventa
quel che siamo altrove, lungo quel filo di cui non afferriamo i capi.
L’età? È una carezza di vento, il vento del tempo, quel tempo fugace in cui si
avverte tutto il mistero.